Beach House - 7
Dark Spring - Pay No Mind - Lemon Glow - L'Inconnue
Drunk in LA - Dive - Black Car - Lose Your Smile
Woo - Girl of the Year - Last Ride
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Dopo sei dischi che hanno inevitabilmente consacrato i Beach
House come uno dei gruppi più chiacchierati del decennio – che si tratti di
“Devotion” o “Teen Dream”, accolti benevolmente dalla critica tradizionale, oppure
di “Bloom” e “Depression Cherry”, che invece hanno riscosso grande fortuna
nelle community online - tantissimi ascoltatori, di diverse estrazioni, si sono
trovate ad ascoltare i dischi del duo di Baltimora, ai quali tocca ora fare
fronte a paragoni pesanti, su tutti quelli con Cocteau Twins e Slowdive.
Il nuovo disco, chiamato senza
troppe fantasie “7”, si trova quindi a dover dissipare la perplessità più
tipica che può circondare un disco uscito negli anni ’10 da un complesso già
attivo da un po’ (in questo caso da quasi 15 anni): sarà chiamato a dimostrare
di non essere diventati semplice “forma”, ma di proporre ancora “contenuti”. E
questo vale doppiamente nel caso dei Beach House, alfieri di un Dream
Pop/Shoegaze che, negli ultimi anni, ha visto susseguirsi un impressionante
numero di cloni dal discutibile valore artistico e creativo, soprattutto grazie
al boom della distribuzione su internet che ha dato grandi opportunità ai
gruppi emergenti, ma ha anche eliminato ogni vaglio per la qualità e l’originalità
di quello che venisse pubblicato.
Al varco, l’opener “Dark Spring”
risponde presente: le chitarre ci sono, definiscono un’atmosfera ovviamente
“dream” ma concreta, che si apre nel ritornello in un’ottima melodia
all’attacco di “I Want to lie in/They call Orion” che lascia ben sperare.
Altrove (“L’Inconnue”) le tastiere sono padroni ma non falliscono nel dipingere
uno scenario fortemente suggestivo, permeato di linee melodiche dolcissime. A
questo punto ci troviamo di fronte alla conferma del valore assoluto del
songwriting di Scally/Legrand, che negli anni ha saputo deliziare con brani
come “Norway” o “Lazuli”, per citare giusto due esempi.
Il disco non si accontenta del
compitino, e diverse volte riesce in veri e propri salti di qualità. Questo è il
caso di “Dive”, brano estremamente potente che trova un grande alleato
nell’efficace drumming di James Barone e nel mixaggio delle chitarre che fa
tornare alla mente “How SoonisNow?” degli Smiths, alfieri del pop daiquali
tutto parte e ai quali molto ritorna. Il brano migliore, tuttavia, è portato
dai sette minuti finali di “Last Ride”, che inizia con un fiume elettronico nel
quale si innestano prima una chitarra in acustico, quindi una elettrica,
dolcemente distorta, a concludere un brano che meriterebbe di essere annoverato
tra i capolavori dello shoegaze.
In conclusione, è vero che
l’ascolto di nuovi dischi da parte di band acclamate rischi di fregarci, di
nascondere dietro un po’ di mestiere una carenza creativa. Tuttavia, se da un
lato siamo chiamati a non farci fregare, dall’altro dobbiamo essere anche in
grado di riconoscere qualcosa di veramente bello e di valore come questo 7. A
mio parere, si tratta del miglior disco dei Beach House, e in tutta onestà mi
sorprenderebbe ascoltare un disco più bello di questo uscito nel 2018
Mattia P.
8/10
Victoria Legrand - voce, tastiere Alex Scally - chitarra. basso, tastiere, cori |
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