Recensione: Amorphis - Under the Red Cloud
Gli Amorphis costituiscono
un’impronta fondamentale del metal scandinavo grazie al loro sound pulito ed a
tratti malinconico. La band nacque inizialmente con l’intento di diventare un
gruppo essenzialmente death ma, nel corso del tempo, cambiò il suo sound grezzo
fino a sfociare in un contesto molto folkloreggiante e tenue (adottando, di
conseguenza, elementi più malinconici per poter concretizzare il loro intento
musicale).
La band nacque agli inizi
degli anni ’90 in una fredda capitale del Nord Europa circondata da foreste e
laghi dalle acque cristalline, Helsinki, ed il loro primo lavoro risale al
1991, ossia una Demo intitolata “Disment
of soul”. Ne susseguì un singolo e poi il primo album, The Karelian Isthmus,
rilasciato nel 1992. Al giorno d’oggi il gruppo vanta ben dodici album, una
ventina circa di singoli, alcuni split, video e compilation. In una carriera
poco meno che trentennale hanno saputo produrre begli album e singoli che hanno
fatto, e che stanno facendo gola al giorno d’oggi.
Attualmente la band è formata
da cinque componenti: Jan Rechberg, Esa Holopainen, Tomi Koivusaari, Santeri Kallio
e Tomi Joutsen. Non sono stati pochi i cambiamenti all’interno della
formazione, infatti ci sono stati ben venti ex componenti che hanno reso, in
buona parte, questo gruppo, un gruppo assai apprezzato dagli amanti del genere.
Per un gioco della sorte il nome della band deriva dal greco “amorphous” che
sta a significare una condizione, o una persona, senza destino apparente. E a
quanto pare, il loro destino è poter continuare a suonare fino alla fine.
Ma adesso pensiamo al presente
recensendo il loro ultimo lavoro in studio, Under the Red Cloud!
Rilasciato dalla Nuclear Blast
il 4 settembre del 2015, l’album presenta una cover molto particolare, degna
dei più bei mosaici bizantini. Infatti, guardandola, ci si rende conto di
guardare anche una sorta di mosaico stampato su carta. Tantissimi piccoli
pezzetti quadrangolari uniti assieme, fino a formare un disegno astratto dai
colori della Terra.
Rosso sabbia, ocra e blu
lapislazzuli, infatti, sono colori direttamente derivanti dai minerali
terrestri ed utilizzati nelle epoche più remote; persino dai nostri antenati ci
giungono notizie riguardanti il loro utilizzo, tra i murales come nella pelle,
per caratterizzarne il rango sociale. Il vortice del rosso e del blu forma, al
centro della cover, due serpenti che si abbracciano sinuosamente tra loro, come
a significare una congiunzione tra acqua e fuoco, i quali sono “incollati” dal
fattore terra, in questo caso espresso dal colore ocra che si trova nei
contorni delle loro scaglie traslucide.
Va precisato, infatti, che le
tematiche delle canzoni riguardano essenzialmente la natura ed il suo vasto
mondo costituito da divinità e misteriose leggende che la avvolgono.
Detto ciò, iniziamo con la
setilst.
Le canzoni sono dieci per una
durata complessiva di 50 minuti circa.
Il disco inizia proprio con la
canzone omonima dell’album, ossia “Under
the Red Cloud”, la quale parla di una sorta di incontro trascendentale con
un orso in una gelida e desolata valle nordica circondata da alte cime
montuose. La persona in questione dorme accanto al cranio di un orso, molto
probabilmente ucciso da dei cacciatori armati di torce e punte affilate e,
trascorsi tre giorni e tre notti, sente che in lui si sta immagazzinando
l’istinto primordiale di sopravvivenza di quell’orso che ha perso la vita,
immaginandoselo che corre affannosamente verso la foresta per salvarsi dalla
crudele ferocia dell’uomo. Il tutto è ben orchestrato da elementi folk, il che
dà un peso diverso alla canzone, rendendola una triste ballata.
Successivamente si passa a “The Four Wise Ones”, ossia “I quattro
saggi”. Vento, terra, ghiaccio e roccia, i quattro elementi essenziali che
costituiscono il freddo e sterile paesaggio nordico invernale. Già da
principio, la canzone inizia con un ritmo rapido e sempre più celere, con
elementi melodici e piacevoli. Il cantato è prettamente growl (tranne
all’inizio del terzo minuto che è presente una voce distorta dai
sintetizzatori) e le chitarre sono molto presenti in questo brano.
Poi, come terza track, abbiamo
“Bad Blood” che, essenzialmente, fa
riferimento alla purezza dell’uomo il quale, pur di risultare perfetto agli
occhi della Natura, si priva dei suoi peccati, qui metaforicamente paragonati
al sangue cattivo che scorre lento e denso dalle vene. Infatti, nella penultima
strofa, viene metaforizzato il concetto di Redenzione con le seguenti parole:
Attingere
il veleno dalle mie vene
Lascia uscire
il sangue cattivo in me
Lascia che
scorra dorato e vero
Lascia uscire
il sangue cattivo in me
Una canzone molto significativa, che fa riflettere su quanto
la persona voglia sbarazzarsi dei propri errori commessi in vita prima di morire,
il tutto accompagnato da un ritmo struggente e malinconico.
La quarta track si intitola “The Skull” e sembra il continuo della seconda in quanto si fa
ancora riferimento alla persona intrappolata nell’avvallamento nevoso ed al
cranio dell’orso che per le popolazioni scandinave rappresentava un feticcio di
adorazione perché questo era considerato una potente divinità, data la sua grandezza
e maestosità. Il corpo dell’uomo, cadendo in un precipizio, si ritrova
maciullato e sofferente in uno spazio angosciante e frastagliato, mentre la sua
anima viene traghettata al cospetto della divinità. In questa canzone prevale
un growl quasi soffocato, come se si volesse enfatizzare lo stato confusionale
dello spirito del morto al cospetto dell’animale divinatorio, il quale, viene
contrastato da una parte musicale assai sommessa e melodica grazie al suono
dolce delle tastiere.
Ancora più particolare è la
quinta canzone, intitolata “Death of a King”,
dove viene riassunto il percorso itinerante dello spirito reale attraverso dei
luoghi a lui sconosciuti, avvolto in un alone di confusione e smarrimento
totale, incapace, dunque, di raggiungere la sua meta. La curiosità di questo
brano è la visione in “doppio”, ossia che vengono unite due visioni
contrapposte: l’una dove il re è ancora vivo e vegeto, l’altra dove la sua
anima sta vagando in uno spazio etereo e desolato, come le ampie lande
ghiacciate del Nord. Il tutto è accompagnato da un ritmo inizialmente molto
orientaleggiante che si intervalla con un ritmo prevalentemente melodic death e
da un’alternanza vocale tra il clean ed il growl che si esaurisce nel corso
della canzone.
Successivamente “Sacrifice” introduce uno dei temi più
primitivi riguardanti la religione, ossia il sacrificio, il dare qualcosa ad
una divinità sperando nella sua benevolenza. Che si tratti di esseri viventi o
vegetali, il sacrificio ha sempre caratterizzato la religione, in un modo o
nell’altro. In questo caso viene specificato un sacrificio fatto di viveri nella
speranza che la divinità faccia ritornare il calore su una terra battuta dal
freddo e dalle intemperie. Il ritmo è assai progressivo, melodico ed
altisonante; con una vocalità esclusivamente in clean, che rende l’idea della
continuità delle azioni da parte della persona che prega, affinché le venga
esaudita la sua richiesta di non soccombere alla cappa di gelo che imperversa
nel luogo dove vive.
Ed ora giungiamo alla settima
canzone, “Dark Path”, la quale si
rifà ad una situazione che era assai frequente in un’epoca dove la luce
artificiale era nient’altro che un mero miraggio, e, se dovevi girare di notte,
dovevi armarti di una torcia illuminata, grazie al bitume ed al legname, per
poterti orientare verso la giusta strada. Anche in questo caso, capitava
sovente che ci si scontrasse con altra gente e si doveva capire se questa
avesse buone o cattive intenzioni, se voleva bloccarti il cammino o lasciarti
andare avanti per la tua strada. Ed il ritmo calzante dà un’idea di come la
persona potesse sentirsi in preda ad una fredda irrazionalità, frutto di
incertezza e la paura di andare oltre la posizione di quell’estraneo che
transitava nella direzione opposta.
Dopo questa dose di empatica
agitazione, ci si ritrova ad ascoltare “Enemy
at the Gates” che rende ancora più l’idea di quanto si potesse diffidare
delle tribù sconosciute. Infatti, si era nemici a prescindere perché si voleva
avere la piena padronanza di territori sterili senza avere una pacifica
convivenza, dato il primitivo istinto di territorialità umano che è ancora
presente ai giorni nostri. Il ritmo, calzante ed a tratti rapidissimo, viene
intervallato dalla voce in clean e da quella growl che si presenta
prevalentemente nel ritornello della canzone; tuttavia ci sono parti dove la
voce scompare del tutto, per dare il senso di innata tensione tra i due popoli
che si ritrovano a confrontarsi l’uno con l’altro.
La penultima track è intitolata
“Tree of Ages” e credo sia la più
significativa di tutto l’album. Questa inizia con un accenno folk dato da un
flauto traverso, o meglio conosciuto come flauto di Pan (un satiro, con gli
arti inferiori di capra e la parte superiore costituita da busto, braccia e
testa umani) il quale caratterizza ulteriormente la canzone. Il testo è assai
ricco di significato in quanto descrive le epoche della storia come le foglie
di un albero che marciscono e cadono alla base. Il cielo corrisponde al
paradisiaco universo delle divinità, sconfinato ed idilliaco, mentre le radici
ed il terreno caratterizzano la Genesi delle Epoche che hanno attraversato
secoli e secoli di storia, con personaggi annessi. Il tutto caratterizzato da
un alone musicale che sa di antico e di dimenticato ma, al contempo, di vivo ed
eterno.
L’ultima canzone dell’album, “White night”, conclude questo ciclo
idilliaco. Ci si ritrova in un posto sconfinato di notte, a vagare verso una
meta sconosciuta, sotto il candido biancore delle stelle e della luna che ci
indicano la via per la salvezza. Di giorno il Sole ci rende il cammino più
nitido e facilmente percettibile, di notte le stelle e la Luna ci danno la
sicurezza di fare i passi giusti per poter raggiungere la meta. Il ritmo della
canzone è molto progressivo e lento, con dei tratti death rapidi dati dal growl
della voce e l’ausilio di una sonorità in più della tastiera.
Dopo questo ascolto e dopo
essermi resa conto del profondo significato dei testi, questo album si merita
un 8,5 su 10. Innanzitutto perché risulta essere ben bilanciato, in primis per
l’alternanza clean/growl e secondariamente per il ritmo non troppo eccessivo;
sound molto tecnico ed adeguatamente elaborato, con il giusto dosaggio tra
strumenti e voce. Direi che gli Amorphis hanno fatto veramente un bel lavoro e
non vedo l’ora di un loro prossimo album per allietare le mie giornate!
VOTO
8.5/10
Brani:
1. Under
the Red Cloud
2. The
Four Wise Ones
3. Bad
Blood
4. The
Skull
5. Death
of a King
6. Sacrifice
7. Dark
Path
8. Enemy
at the Gates
9. Tree
of Ages
10. White
Night
Formazione:
Jan Rechberg (percussioni,
batteria)
Esa Holopainen (chitarra)
Tomi Koivusaari (chitarra
ritmtica)
Santeri Kallio (tastiere)
Niclas Etelävuori (basso,
voce)
Tomi Joutsen (voce)
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